martedì 20 dicembre 2011

Veglia

Ci siamo quasi, mancano solo cinque giorni a Natale: le luci sono accese, l'albero è fatto, i dolci sono solo da sfornare. I regali, forse, li abbiamo già comprati tutti. Stiamo pensando ai cibi da preparare e a cosa indosseremo per festeggiare. Forse ci viene in mente che cinque giorni non sono molti per organizzarsi, e che il tempo a nostra disposizione si riduce ulteriormente se per noi è la notte della vigilia il momento fondamentale della festa.
Per me, per molti anni, non è stato così, visto che la mia famiglia ha sempre festeggiato il Natale durante e dopo il pranzo del 25. Ora però, le mie tradizioni familiari si sono mescolate con quelle della famiglia del mio fidanzato, ed ho iniziato anch'io a vegliare la notte del 24, aspettando la mezzanotte per lo scambio dei regali, mangiando squisiti piatti di pesce e giocando a tombola.
Oggi stavo pensando che la parola veglia mi è sempre piaciuta. La sua etimologia è la stessa della parola vigilia, che altro non è che la versione conservativa della parola latina VIGILIA(M), a sua volta da VIGILE(M), che significava "attento" ma anche "sveglio". In veglia la differenza nei suoni è dovuta semplicemente alla caduta della sillaba centrale (detta anche sincope) e al mutamento della i breve in e.
Quando penso a questa parola, ricordo il leggero senso di stordimento che si prova da bambini a stare svegli fino a tardi, e la magia dell'attesa di Babbo Natale e della Befana. Mi viene in mente anche la veglia tradizionale che si faceva nella mia campagna, con la famiglia allargata raccolta attorno al calore delle mucche e delle persone amiche. A ripeterla sottovoce sento quasi il profumo del fuoco della stufa e del camino. Mi figuro poi la sentinella dell'etimologia, che in un passato lontano vinceva il freddo e il sonno della notte osservando le stelle all'orizzonte.
E sono proprio queste le sensazioni che vi auguro di provare questo Natale, magari ritrovandole, come me, nelle sillabe di questa parola vecchia di duemila anni: magia, calore, protezione, coraggio, e attenzione verso le cose e le persone che amate.
Auguri a tutti voi!

lunedì 24 ottobre 2011

Teleriscaldamento

Brrr....
Teleriscaldamento = composto del prefissoide greco tele, che significa lontano, e della ben più nota parola riscaldamento.
Pare che sia un buon modo per risparmiare sulla bolletta e per inquinare di meno l'ambiente.
MA (e questo è un grosso ma) può capitare che il suddetto potere riscaldante, per ragioni tecniche a me del tutto ignote, non arrivi a destinazione, e questo, ahimè, è il caso del mio condominio.
In questo frangente non è solo il riscaldamento ad essere tele, ma anche tutti quelli che dovrebbero toglierti d'impiccio, tipo il teleamministratore condominiale e il telefuochista della caldaia, e lontana anni luce pare anche la soluzione del problema.
Morale della favola: tengo il computer acceso perchè, essendo vecchiotto, si surriscalda, e ho la sensazione che mi scaldi la camera.
E scrivo sul blog per tenere attivi i neuroni e bruciare calorie. :)

sabato 15 ottobre 2011

Indignati

In svariate parti del mondo, e in queste ore anche in Italia, giovani della mia età manifestano contro le politiche economiche e le strategie finanziarie che hanno ridotto il mondo nello stato in cui è ora. Quelle che hanno fatto sì che, per noi, la prospettive future siano solo una massa nebbiosa e incerta, grigia come il cielo che vedo ora dalla finestra sopra i tetti di Torino.
E intanto, continuiamo a domandarci se c'è posto per noi da qualche parte, o se dovremo sgomitare, scavare con le unghie e con i denti, o guadagnarci il nostro angolino di terra e di cielo alle spalle di qualcun altro. Questo ha a che fare con la dignità.
E non è un caso che la parola indignato abbia la stessa radice della parola degno, in latino DIGNUS. Indignare vuol dire, letteralmente, "non considerare degno".
Non approvo la rabbia e la protesta fine a sè stessa, e credo fermamente che sia sempre necessario fornire, insieme alle critiche, delle proposte alternative. Ma è davvero lecito chiedere a una generazione così giovane di trovare una soluzione al tracollo causato dai comportamenti indegni di chi è venuto prima?

lunedì 1 agosto 2011

Abitudine

Due weekend fa sono stata al mare. Riva Ligure, di cui vi ho già parlato, è il classico paesino della Liguria occidentale, meta obbligata dei torinesi over 60, il cui accento si ode costantemente risuonare durante la passeggiata sul lungomare. Adesso però comincia a risaltare, tra la folla bassina e attempata, qualche carnagione pallida distribuita su gambe decisamente più lunghe della media, mentre all'intercalare "nè" si sostituiscono affascinanti fonemi esotici. Riva Ligure si fa internazionale. Oggi si può ingannare il tempo sulla spiaggia osservando inglesi, francesi, rumeni e russi, con bambini biondissimi che passano l'intera giornata a mollo nell'acqua (che non viga altrove la ferrea regola delle "tre ore dopo mangiato" che tanto amavano le nostre nonne?). Inoltre questi forestieri bagnanti sono gli unici a sfidare in modo imperturbabile qualsiasi clima, che nel suddetto weekend è stato, diciamo, decisamente "variabile". Io naturalmente, non essendo altrettanto impavida, mi sono rifugiata in bar e ristoranti, cercando conforto nelle gioie del palato.
Proprio lì, nel bar del paese, si è svolta la scena che voglio raccontarvi.

Siamo nel primo pomeriggio, e i pochi avventori indugiano nel dopo-caffè, dal momento che il cielo in continuo mutamento non offre molte alternative. A un tratto arriva una donna anziana, spinta su una sedia a rotelle da una più giovane. Dal poco che riesco ad udire credo si chiami Angela. Porta un vestito nero, di un'eleganza sobria, e orecchini di perle. Ha il volto rugoso ma sereno di chi ha visto molte cose. Quando arrivano sotto al portico, Angela si alza dalla sedia a rotelle, e io mi accorgo che è decisamente più forte di quello che sembra. La donna che l'accompagna si avvicina a un tavolino, dove due signore di mezza età stanno finendo il gelato. Non riesco a sentire l'intero discorso, ma dopo un po' le due si alzano e colgo il finale della conversazione: "Grazie mille, scusate eh, ma sono trent'anni che lei si siede lì". Angela si avvicina al tavolino. Ad osservarlo bene, è il tavolino perfetto: vicino al muro per riparare le spalle dal vento, per metà al sole e per metà all'ombra, nella posizione ideale per guardare il mare. Le signore col gelato ridacchiano da un altro tavolo, mentre l'accompagnatrice di Angela la saluta e va via. Lei rimane lì, sola, e a guardarla pare molto serena, con lo sguardo fisso verso il mare.

Ho riflettuto sulla forza dell'abitudine, che può far sì che per trent'anni ci si sieda nello stesso posto. Possibile che non venga mai a noia? Allora, come mio solito, ho cercato l'etimologia della parola. Abitudine deriva, come abito, da HABITUS, participio del verbo HABEO, avere. Forse è possibile che, in certe stagioni della vita, l'abitudine sia, in effetti, tutto ciò che si ha?

venerdì 1 luglio 2011

Gargano

Mi concedo un attimo di pausa dallo studio disperato di questi giorni per sognare beatamente l'agognata meta delle mie vacanze 2011: il Gargano. Oh sì, tra poco più di un mese io sarò qui:


Questo significa, tra le altre cose, che dopo sarò di ritorno con qualche succulento souvenir linguistico per tutti voi. Per ora mi sono limitata a cercare su internet l'etimologia di Gargano, che però è assolutamente introvabile e pare che la sua origine si perda nella notte dei tempi. Però "Gargan", o parole dal suono simile, significano "monte" in alcune altre lingue, tra cui spicca il basco, la lingua più antica d'Europa, oh yes.
Per quanto non ami alla follia le elucubrazioni indoeuropeiste, o peggio ancora, quelle celtiste, l'idea di sdraiarmi al sole su una terra il cui nome è più vecchio di duemila anni mi attira. In verità, credo che accetterei di calcare le dorate spiagge anche di un posto dal nome più recente, in effetti.
Torno ai miei libri dopo questo breve delirio vacanziero-etimologico, a presto!

lunedì 13 giugno 2011

Quorum

È la parola del giorno. Piccola, utile parolina dal suono un po' retrò che nelle ultime ore ha preso a significare tante, tantissime cose.
Di per sè  è una parola latina, estrapolata da una qualche formula giuridica, nello specifico il genitivo plurale del pronome relativo QUI. Significava "dei quali", poi è passato a indicare "il numero minimo di rappresentanti di un'assemblea dei quali c'è bisogno per deliberare".

Quanto mi piace questo genitivo stasera, con la sua desinenza po' altisonante che unisce tutta l'Italia in una grande assemblea, in una collettività che può finalmente decidere del proprio destino. I racconti dai seggi, i brandelli di vita e di umanità che mi sono apparsi durante queste ore, soprattutto attraverso il web, saranno per me memorabili (leggete questi bellissimi resoconti dal seggio sul blog di Noemi).
Perfino gli effimeri hashtag #battiquorum, #iohovotato, #affluenzareferendum su Twitter hanno guadagnato un posto nella mia memoria, e mi hanno dimostrato che il web è la nuova frontiera di un paese più autenticamente democratico.
Facciamo in modo che questo referendum sia il primo gradino verso un'Italia più giusta, più solidale, più sostenibile.
Ora che abbiamo fatto al paese la nostra promessa (vedi votare), lottiamo per mantenerla.

P.S. forse non è un caso che i romani siano andati a festeggiare l'esito del referendum alla Bocca della verità. ;)

domenica 12 giugno 2011

Votare

Voto, in latino, voleva dire promessa. Fare un VOTU(M) significava prendersi un impegno solenne e giurare di rispettarlo.
Quindi oggi pensate a questa etimologia e andate alle urne, perchè farlo è come promettere all'Italia: mi prenderò cura di te.

venerdì 3 giugno 2011

Losna & Trun

Ho l'influenza (troppe etimologie?), sono a letto con il pc sulle coperte, e fuori c'è il temporale. Ottimo inizio di weekend, direi.
Ma a me, in realtà, i temporali piacciono. Più di quelli primaverili amo quelli estivi, con il tipico cielo scuro e pesante, elettrico, come nella canzone di Jovanotti.
I temporali estivi, quelli che ci sorprendono quando andiamo in giro belli sbracciati, con i sandali, e all'improvviso sentiamo raffiche di vento tiepido, un gocciolone sulla guancia, e ci viene l'impulso di affrettarci verso casa, e quello opposto di fermarci lì, in mezzo alla strada, e abbandonarci alla furia degli elementi. Ma tutte queste sensazioni vengono spazzate via, in un attimo, da una ben più intensa: l'odore dell'asfalto bagnato, l'unica fragranza al mondo capace di evocare in un solo istante: estate, infanzia, mare, avventura, vapore, pantaloncini corti, bicicletta, vacanza. Poi comincia a piovere sul serio, e dimentichi dei i propositi di poco fa ci ripariamo sotto il primo portico, e ci divertiamo a contare i secondi tra lampo e tuono, anche se non ci ricordiamo più il modo in cui si calcola la distanza in chilometri del temporale. E poi, a che servirebbe saperla? In questo momento, al riparo, segretamente ci piacerebbe che il centro fosse proprio sopra la nostra testa, per godere meglio di questo spettacolo violento e incantevole, per gustarci bene la paura. Ascoltiamo i lampi e i tuoni, che in piemontese si chiamano losna e trun, e sembrano divinità di un qualche olimpo celtico scese finalmente in terra a fare giustizia. Poi, ci scopriamo a immaginare la quiete, proverbiale, che verrà dopo, e a chiederci con gioia infantile se riusciremo a vedere l'arcobaleno.
Ecco perchè mi piacciono i temporali.
Ma veniamo alle etimologie: il tuono, in piemontese trun, deriva dalla parola latina TONITRU(M), a sua volta derivante da TONUS, con l'inserimento della r avvenuto probabilmente per ragioni fonosimboliche, ovvero per imitare, con il suono della parola, il suo stesso significato. La vibrante in questione ha poi subito una metatesi, ovvero si è spostata nella prima sillaba, per agevolare la pronuncia.
Ma quella che preferisco è l'etimologia di losna, che a prima vista sembra una parola strana e di probabile origine esotica, e invece deriva dal verbo latino *LUCINARE, da cui losnè, ovvero folgorare, lampeggiare. Questa parola deriva a sua volta dal latino tardo LUCINU(M), ovvero lanterna.
Qui di fianco potete ammirare una sequenza temporalesca ripresa mesi fa dalla mia finestra, con tanto di arcobaleno finale.

martedì 31 maggio 2011

Una tazzina di parole

Che emozione, per la prima volta un mio post è stato ospitato su un altro blog! Si tratta del bellissimo blog di Noemi, Tazzina di caffè. È per me un privilegio, davvero, che le mie parole possano stare lì, a fianco alle sue, sempre scelte con una cura e una creatività che mi commuove e mi sorprende ad ogni lettura.
Per l'occasione ho scritto un raccontino, che potete leggere qui, nel quale, naturalmente, ho nascosto un'etimologia. Per darvi un piccolo indizio vi posso dire che questa parola ha a che fare con il guardare le stelle. ;)

domenica 22 maggio 2011

Tabaleuri

Mai fidarsi dei musicisti.
Che all'interno della cultura tradizionale si provasse un po' di diffidenza nei confronti di queste figure nomadi e un po'esotiche, lo dimostra la parola piemontese tabaleuri. Questo interessante vocabolo infatti significa, citando direttamente dal Dizionario Monferrino di Sergio Nebbia: "baggiano, sciocco, testa vuota".
Caso vuole che questa parola, derivi, a quanto pare, dall'arabo tabal, che significa tamburo. Il tabaleuri, quindi era in origine il tamburellista, quel personaggio furbo e affascinante che, fino a mezzo secolo fa, girava l'Italia per suonare, e quando poteva scroccava o rubacchiava vino, cibo e qualche moneta. Veniva ospitato nella stalla, perchè la sapeva lunga, e diventava immediatamente la "star" della veglia serale. Dopo, gli si regalavano minestra e polenta, e paglia su cui dormire, perchè l'ospitalità, allora, sapeva ancora vincere la diffidenza.

Questo post mi è stato ispirato dalla manifestazione, organizzata dal comune di Rivalta (TO), a cui parteciperò attivamente stasera tirando fuori la mia parte barotto-monferrina d.o.c, per condividere con gli avventori parte della tradizione musicale delle mie parti. Se per caso siete nel torinese venite a dare un'occhiata. :)

mercoledì 18 maggio 2011

Liguria - primo diario (linguistico) di viaggio

Voglio inaugurare oggi una nuova rubrica. Non sono una gran viaggiatrice, e forse proprio per questo mi piace molto leggere i resoconti di viaggio sui blog degli altri, colmi di belle foto e di aneddoti. Oggi pensavo che vorrei fare anch'io la mia parte, e dunque, da ora in poi, mi impegno solennemente a tornare da ogni mio viaggetto, breve o lungo che sia, con almeno un souvenir linguistico per tutti voi.
Ho trascorso il weekend in un paesino della provincia di Imperia, Riva Ligure, che, come potete leggere qui, è uno dei luoghi della mia infanzia. Però, non l'avevo mai visto in questa stagione, con i fiori primaverili, le spiagge vuote e un venticello che faceva desiderare i rari spiazzi soleggiati tra i profondi vicoli del centro. Il paesaggio inondato da un sole limpido e da un'arietta così pungente da spingere i pochi passanti a evitare accuratamente l'ombra delle palme sul lungomare. Ho camminato tra le tamerici potate, gustandomi le prime ciliege della stagione, riconoscendo gli stabilimenti vuoti, i profili noti dei palazzi sul lungomare e i muretti di pietra, giaciglio dei gatti sonnecchianti in ogni stagione.
E poi, come promesso, ho un raccolto souvenir linguistico per voi, che è il nome stesso della vicina Sanremo, che entra a pieno merito nel novero delle parole che pronunciamo continuamente, ma sulle quali non ci siamo mai soffermati davvero.
Ecco, la cosa buffa è che a quanto pare nel medioevo la città si chiamava San Romolo. Giuro.
Prima, per non far sfigurare la facoltà di scienze linguistiche, che giornalmente frequento, vi propongo l'ipotesi seria: l'esito attuale, cioè, è verosimilmente frutto di usura fonetica, dovuta alla caduta dell'ultima sillaba e ad una pronuncia sempre più approssimata della prima vocale, trasformatasi prima in œ (qualcosa come Rœmu) e poi in e.
Ma a me piace pensare che il nome attuale sia frutto dell'ironia dei liguri tardomedievali che probabilmente hanno scherzato, come potremmo fare noi ora, sul nome di questo santo anomalo, forse proprio sostituendo alternativamente l'appellativo dell'omonimo fondatore di Roma con quello di suo fratello Remo. A condire il tutto rimane il fatto che, nell'agiografia cristiana, nè San Remo, nè San Romolo sono mai esistiti.

domenica 24 aprile 2011

Pasqua

Come tutti sappiamo la Pasqua, prima di essere una festa cristiana, era una festa ebraica. Il suo nome, PESACH, significava "passare oltre", ma anche "liberare". Infatti, è il giorno della liberazione degli ebrei dalla schiavitù in Egitto, mentre per i cattolici è la svolta tra la vita terrena e la vita eterna: il momento in cui, attraverso Gesù, l'umanità si libera dalla sofferenza mortale nella certezza della resurrezione e della comunione con Dio.
Più laicamente parlando, si potrebbe vedere la Pasqua come un momento di passaggio, individuale e collettivo, che non a caso cade proprio nella stagione di rinascita per eccellenza: la primavera.
Però oggi vorrei pensarla anche come il periodo ideale per aspirare alla liberazione dalle oppressioni, fin troppo terrene, che si consumano ogni giorno intorno a noi. Sarebbe bello, e per nulla lontano dallo spirito cristiano della festa, che ciascuno di noi in questo giorno riuscisse finalmente a riconoscere le tante, piccole catene (interiori e non) di cui incosciamente è schiavo. E spezzarle.
Cito a questo proposito una bellissima poesia di Gianni Rodari:



LETTERA AI BAMBINI


È difficile fare
le cose difficili:
parlare al sordo,
mostrare la rosa al cieco.
Bambini, imparate
a fare le cose difficili:
a dare la mano al cieco,
cantare per il sordo,
liberare gli schiavi
che si credono liberi.


Gianni Rodari


Buona pasqua!

martedì 19 aprile 2011

Cambiare (todo cambia)

Cambiare (in inglese to change, in francese changer), sicuramente non è una parola di origine latina. In greco KAMPTEIN significava curvare, girare intorno, e a quanto pare anche nelle lingue germaniche esisteva una radice *KAMB per indicare l'angolo, l'atto di piegare, (pensate anche all'italiano scansare). Lo slittamento semantico, che a quanto pare è avvenuto in buona parte delle lingue indoeuropee, è probabilmente questo: cambiare è svoltare un angolo, mutare direzione.


E se allora il cambiamento non fosse altro, in fondo, che una curva inaspettata della nostra vita? E se la soluzione migliore fosse semplicemente seguire, con dolcezza, il cammino sinuoso che stiamo percorrendo?
Io stasera ci voglio credere, e, sulle note di questa dolcissima canzone, mi lascio trasportare.
Cambia lo superficial
cambia también lo profundo
cambia el modo de pensar
cambia todo en este mundo.



andate a vedere Habemus papam. Moretti stavolta mi ha regalato anche questa canzone. :)

venerdì 25 marzo 2011

Sgiai

È primavera! E si torna con una bella etimologia dialettale. I piemontesi tra voi potrebbero trovare quantomeno originale l'associazione tra l'idea della nuova stagione nascente e la parola del giorno, ma continuate a leggere, a tutto c'è una ragione.
In particolare c'è una poesia di Bertran de Born, che ha funestato tutta la mia carriera di studentessa di materie umanistiche, e che oggi può risultare di difficile comprensione (sarà perchè è stata scritta nel millecentoequalcosa):


Be'm platz lo gai temps de Pascor 
mi piace il tempo allegro di primavera
Que fai folhas e flors venir
che fa nascere foglie e fiori
E platz me quant auv la baudor 
e mi piace sentire il rumore
Dels ausels que fan retentir
degli uccelli che fanno risuonare
Lor chant per lo boscatge 
il canto per i boschi

E fin qui tutto normale. Se non fosse che poi continua con:

E ai grand alegratge
e sono molto felice 
Quand vei per campanhas rengats 
quando vedo accampati per le campagne
Cavaliers e cavals armats
cavalieri e cavalli armati
E platz me quand li corredors
e mi piace quando i soldati 
Fan las gens e l’aver fugir 
fanno fuggire la gente con i propri averi
E platz me quand vei après lor 
e mi piace quando vedo dietro di loro
Gran re d’armats corren venir
enormi armate inseguirli correndo
E platz me mon coratge
e mi piace il coraggio
Quand vei fòrts chastels assetjats
quando vedo forti castelli assediati
 E-ls barris rots e-d'esfondrats
le barriere rotte e sfondate
eccetera, eccetera, eccetera. Qui continua con una corposa lista di miserie e violenze assortite. Ora, io dico a me stessa: ma no, questo tipo di azioni e sentimenti sono cose di un millennio fa, qualcosa che ci sembra assurdo, che non possiamo neanche comprendere perchè un abisso temporale e culturale ci separa dai nostri cugini di allora (e di cugini si tratta, specialmente per noi piemontesi, perchè la Provenza è proprio a due passi).  
Bene, ora guardiamoci intorno, pensiamo alla Libia, all'ONU, a Sarkosy e facciamo due conti. Io, personalmente, sono un po'schifata. E qui viene l'etimologia del giorno, ovvero quella della parola piemontese che esprime il mio stato d'animo a questo riguardo: sgiai, cioè "schifo". 
A quanto pare deriva da un ipotetico verbo *sgiaiè "provare schifo, ribrezzo, raccapriccio" che è un composto della particella EX e di GLADIUM, cioè "spada". Guardacaso in origine indicava proprio il terrore di essere colpiti, ammazzati, trafitti. Esprimeva proprio lo schifo che dovrebbe infondere all'uomo la guerra, in tutte le sue forme.

sabato 5 marzo 2011

Digitale (e una cena molto analogica)

Il computer ci apre il mondo, la rete dà possibilità infinite. È vero. Ma è ancora meglio quando il mondo entra in casa nostra attraverso la porta.
Sì, perchè qualche giorno fa ho organizzato una cena a casa mia con amici che condividono con me il folle proposito di dedicare allo studio maniacale della lingua italiana i prossimi due anni della propria vita.
È stato un susseguirsi di risate, pizza, vino bianco, morsi della gatta Zazie, birra e taralli. Si sono alternate canzoni in piemontese, grandi classici del rock, canzoni d'autore e Bella Ciao e un accenno di inno nazionale (che di questi tempi ha un che di rivoluzionario).
Si è scoperto che i valdostani non conoscono i friarielli (ma gli iraniani sì!), che in casi eccezionali si può mangiare la pasta col cucchiaino, che i gatti bianchi si sentono discriminati rispetto ai loro simili di (un altro) colore, che le linguette dei cartoni di pizza possono trasformarsi in un divertente giochino compulsivo.

 se ho ben capito si chiama beshkan
Ma soprattutto, prestate attenzione perchè è una rivelazione, che mentre gli italiani contando con le dita partono dal pollice, gli americani partono dall'indice e i persiani dal mignolo. E che qualsiasi esponente di una a caso delle tre culture fa seriamente fatica a farlo in un modo diverso da quello che ha imparato da bambino.

Ma questo è nulla se confrontato al modo in cui i persiani schioccano le dita. Nonostante me lo sia fatto lungamente spiegare dalla mia amica Harir (e ci provi ininterrottamente da tre giorni, ehm.) non riesco a produrre il minimo suono. Se qualcuno di voi ci riesce, vi prego, mi spieghi il trucco.

Detto questo, dall'alto del mio modem adsl vi chiedo: chi di voi si è mai domandato l'etimologia della parola digitale? Questa ormai notissima parola è entrata nell'italiano dall'inglese, e in origine significava semplicemente "numerico". Deriva, naturalmente, dal latino DIGITUM, cioè dito, il primo strumento di calcolo della storia. E nell'universo dei suoni e dei significati, ovvero la parola, il computer, il sistema binario, le reti virtuali reincontrano la realtà materiale dei gesti, dei gusti, dei rumori e delle mani.

martedì 22 febbraio 2011

Mentire

Ieri era il mio compleanno. Ieri era il mio compleanno e avevo un esame: questa si chiama sfortuna. Ieri era il mio compleanno, avevo un esame ed ero la quarta dell'appello. Ieri era il mio compleanno, avevo un esame, ero la quarta dell'appello ma sono passata alle cinque del pomeriggio: questo si chiama infierire. Tutto ciò per dirvi che ho degnamente recuperato con una bellissima serata al ristorante insieme al mio ragazzo.
Dal momento che tra i locali aperti il lunedì sera non c'è molta scelta siamo finiti nella trattoria sotto casa, che è uno di quei posti che non noti mai solo perchè li hai sempre sotto gli occhi. L'otttima cucina astigiana (che è anche un omaggio alle mie origini), il lussurioso tagliere di formaggi e l'abbondante barbera non mi hanno impedito di dedicarmi a uno dei miei passatempi preferiti: l'osservazione puntigliosa e rigorosamente indiscreta degli altri avventori del locale.

Mi ha colpita fin dall'inizio la coppia del tavolino d'angolo: Lui giacca e cravatta, con tanto di fazzoletto nel taschino, Lei bionda tinta, rossetto rosso e l'aria un po' su di giri. Si divertivano, e mi compiacevo di non essere l'unica, lì dentro, fermamente convinta di meritare buon cibo, vino e allegria.
È stato solo un attimo prima che si accorgessero che i loro piatti e bicchieri erano vuoti ormai da troppo tempo e che la cena era da considerarsi conclusa che a Lei è squillato il telefono.
"Pronto? Sì, sono andata a mangiare una pizza. Eh? Non ti ricordi? Ti avevo detto che sarei andata in pizzeria con Maria. Sì, con Maria. Come dove? In corso Francia...sì sono in macchina, sto arrivando."
Si sono guardati, come per arrendersi all'evidenza che ora la serata fosse veramente finita, hanno pagato e sono spariti nella notte torinese.

Così stamattina mi sono ritrovata a pensare al significato della parola mentire e ho scoperto che viene dal verbo latino MENTIRI che a sua volta deriva dalla parola MENS, cioè mente, spirito, creatività.
In effetti tutti abbiamo sperimentato almeno una volta nella vita che dire cose non vere, riuscendo, nel migliore dei casi, ad essere anche convincenti, richiede un bello sforzo di immaginazione.

lunedì 14 febbraio 2011

Esame

notare lo sfondo del mio netbook...
È il motivo della mia latitanza nelle ultime settimane. Esame deriva da EX-AGMEN ovvero l'atto del pesare (AGERE) con molta attenzione (EX). Che dire? Speriamo che l'ago della bilancia penda dalla mia parte!
Non c'entra nulla, ma ieri (invece di studiare) sono andata alla manifestazione "Se non ora, quando" a Torino. Quell'intreccio di volti, ombrelli, canti e fili di lana mi ha davvero riscaldato il cuore.

domenica 30 gennaio 2011

Diverso

siamo stati anche noi dei diversi.
In questi giorni l'imperativo è ripensare agli orrori commessi durante la shoah, e il dovere è quello del ricordo. Ma io oggi vi propongo un'altra parola d'ordine: diverso.
È certo doveroso richiamare alla memoria l'orrore commesso nel passato, ma credo che la domanda giusta non sia io cosa avrei fatto, ma: io cosa sto facendo?
Oggi, qui, adesso, non siamo tutti uguali. Ed è la nostra più grande fortuna, perchè la diversità è una ricchezza inestimabile. Siamo davvero capaci, se non di comprenderla, almeno di rispettarla? Penso alla vita per nulla semplice degli omosessuali, degli immigrati, dei portatori di handicap. Penso agli zingari, sinti e rom, che vivono in questo paese da secoli e, nonostante abbiano subito anch'essi la deportazione, sono tuttora discriminati.


Diverso deriva dal verbo latino DIVERTERE, composto di DIS- e VERTERE, ovvero "volgere in direzioni opposte".  Essere diversi, dunque, vuol dire avere un altro orizzonte, essere capaci di guardare in altre direzioni, avere un'altra prospettiva.
Saremo capaci di avere nuovi occhi?

martedì 25 gennaio 2011

Telefonata

È un martedì sera, sono circa le nove ed io sto per uscire di casa per andare in un posto dove non sono mai stata. Naturalmente mi trovo in quello stato di ansia che precede qualunque cosa io non abbia mai fatto, aggravato dal fatto che si tratta di una serata nebbiosa e che io, naturalmente, sono già in ritardo.
Ad un certo punto, tanto per peggiorare le cose, suona il telefono. Rispondo, stizzita:

- pronto?
mi risponde una voce anziana, con un timbro dolce e gentile:

- pronto, Anna?
- no, io sono Marta.
- ah lei è Marta?
- sì, mi spiace, deve aver fatto il numero sbagliato.
- Eh sì -pausa- anche perchè qui c'è un'altra Marta
- ah sì?
- sì, ma io sono una Marta anziana...
- io sono una Marta di ventiquattro anni
- le faccio tanti auguri, signorina, io ne ho novantatré
- beh, io invece le faccio i complimenti!
- la saluto, ancora auguri...
- la ringrazio...
- buonasera
- buonasera.

due in una...
Sorge spontanea la domanda: e se io per caso, tra settant'anni circa, in un giorno di metà gennaio, sbagliassi a comporre un numero e avessi la stessa, identica conversazione?
E se la "voce da lontano" della telefonata non fosse lontana solo nello spazio ma anche nel tempo?

La parola telefonata è uno di quei buffi composti le cui unità sono di origine greca: tele = lontano, come in televisione, e fonia = suono, come in fonetica. Si possono usare come prefissi, cioè all'inizio di parola, o come suffissi, cioè alla fine. Oppure, in casi come quello di telefonata, si uniscono semplicemente tra loro, un po' come due fette di pane senza niente in mezzo. :)

domenica 16 gennaio 2011

Ricerca

Ricerca è la parola che, per via dell'università, sento e pronuncio più spesso in questi giorni. E, come accade per ogni parola che mi ronza in testa per il tempo sufficiente ad innescare una piccola ossessione, la sua etimologia è finita su queste pagine.

Ricerca è un composto del prefisso intensivo ri- e del verbo cercare, che a sua volta deriva dal latino tardo CIRCARE.
La radice è la stessa di CIRCULUM, "cerchio", e letteralmente significa "girare, tracciare dei cerchi intorno a qualcosa".
Mi lascio affascinare dall'idea che fare una ricerca significhi circondare, abbracciare l'oggetto dell'inchiesta, comprenderlo nel corpo e nella mente.

Se c'è una cosa che mi ha insegnato l'etnomusicologia è che a volte è necessario ampliare l'orbita, il cerchio del nostro sguardo verso l' "altro", per poi volgerci indietro, e - da lontano - capire noi stessi.

giovedì 6 gennaio 2011

Befana

Il passare dei secoli talvolta si avverte nel mutamento dei suoni che trasforma una parola in un'altra. È il caso di Befana, che è semplicemente il risultato dell'evoluzione fonetica di epifania, che a sua volta derivava dal greco epiphaino, cioè "mostrarsi, apparire". In particolare è avvenuta un'aferesi, ovvero la perdita della vocale iniziale, e la consonante p sì è lenita in b. Certamente esiste ancora, almeno in alcuni dialetti, l'espressione parlata befanìa (non ho modo di controllare, ma vi basti sapere che ha 14.500 risultati su Google), da cui è derivato, appunto, Befana.
Com'è possibile che il manifestarsi della presenza divina abbia lo stesso nome della vecchietta carica di dolcetti e carbone? Perchè la nostra cultura è meravigliosamente variegata e stratificata, non solo nello spazio ma anche nel tempo, e le usanze si mescolano, si uniscono e si sovrappongono fino a diventare un tutt'uno. E così capita che il sei gennaio si festeggi, contemporaneamente, il dio della cristianità e l'anno pagano che muore e rinasce; che si celebri, allo stesso momento, la vecchia strega e il bambin Gesù.

la Befana vien di notte
con le scarpe tutte rotte
con le toppe alla sottana
viva viva la Befana!

sabato 1 gennaio 2011

Inizio

Non mi svegliavo neanche tanto tardi, perchè la mezzanotte l'avevo passata coi nonni, spiando i botti dietro le tende con la nonna che mi metteva paura e il nonno che sparava tre colpi a salve dalla finestra. La nonna, naturalmente, disapprovava.
Non mi svegliavo tardi, ma comunque troppo tardi per fare colazione, visto che l'odore di salsicce e zampone pervadeva già tutta la casa. La prescrizione era quella di indossare qualcosa di nuovo, di solito un maglione di lana appena ricevuto che faceva pizzicare la pelle, meglio se rosso.
Si faceva pranzo nel salone, con la vecchia televisione accesa sul concerto di Vienna. Il nonno muoveva le mani a tempo, come un direttore di orchestra, e io, rapita, ballavo il bel Danubio blu in pantofole sul pavimento di marmo dell'ingresso.
Venivano servite le lenticchie, la nonna ripeteva di mangiarle, che portano soldi, mentre si faceva a gara a riconoscere il fagotto, l'ottavino, il contrabbasso, e a un certo punto, finalmente, veniva il momento della marcia di Radetzky.
Stanchi dello zampone avevamo già spostato le sedie in fila davanti alla televisione, come un pubblico vero, e tutti battevamo le mani a tempo con vero entusiasmo, vera gioia, vera speranza.
Ecco, mi chiedessero qual è il modo perfetto di iniziare l'anno, direi che somiglia a questo.


Inizio deriva dalla parola latina INITIUM, participio di IN-IRE, ovvero "andare in, entrare".
Che ciascuno di voi possa entrare in questo nuovo anno nel modo migliore possibile, e, naturalmente, continuare così.
Buon 1-1-11 a tutti voi!
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