giovedì 30 dicembre 2010

Divieto

Nella mia via c'è un divieto di sosta. Non nel senso che in un determinato luogo non sia concesso parcheggiare, ma nel senso che da qualche tempo a questa parte vi è comparso un cartello stradale provvisorio, retaggio di probabilmente di un cantiere a conclusione del quale è stato dimenticato. A volte osservo la sua figura esile e traballante, con la testa rotonda, blu bordata di rosso, e per un attimo mi pare di cogliere in lui un atteggiamento un po'mesto. Non tanto perchè ciò che prescrive venga sistematicamente violato -egli è ben consapevole di essere messaggio all'interno di un codice- ma perchè si trova ineluttabilmente in balia degli eventi. Dal mio balcone appare chiaramente, infatti, che spesso viene spostato per tutta la lunghezza della strada dall'automobilista inquieto che tenta di ritagliare un rettangolo di asfalto per sè e la sua vettura, e talvolta gli è accaduto anche di ritrovarsi dall'altra parte della carreggiata. Benchè probabilmente la visione del mondo da una nuova prospettiva possa apparirgli stimolante, l'episodio più mortificante l'ha visto issato a forza sul marciapiede medesimo, con la sola possibilità di rivolgere vanamente il suo messaggio alle facciate ignare dei palazzi circostanti.
So bene che non parliamo la stessa lingua, ma la prossima volta che gli passo di fianco quasi quasi un sorriso glielo faccio.

La parola divieto deriva da un verbo latino che probabilmente suonava come *DEVETARE, composto dalla particella DE e dal verbo VETARE. Quest'ultimo, da cui deriva anche il sostantivo italiano veto, ha probabilmente la stessa radice di VETUS, cioè vecchio. Secondo questa interpretazione (che però non è verificata e dunque chiedo a voi lettori, strizzando l'occhio, di cedere senza rimorsi alla suggestione) una cosa è vietata quando viene "messa tra le cose vecchie" perchè ha ormai fatto il suo tempo, e dunque è opportuno che non venga fatta più.

venerdì 24 dicembre 2010

Presepe

È arrivato il Natale, che sa essere, come tutte le tradizioni, nuovo e vecchio allo stesso tempo. E io, come ogni anno, ho allestito in casa un presepe, che mi ricorda l'infanzia e mi dà la strana sensazione di aspettare fiduciosamente qualcosa di buono.

Un particolare del mio presepe.
Quest'anno per la prima volta, però, mi sono chiesta anche l'etimologia della parola, e ho scoperto che PRAESEPE, e la sua variante PRAESEPIUM, in latino significavano stalla, o più propriamente recinto, dal verbo PRAESEPIRE, composto di PRE, cioè "davanti" e SAEPIRE, ovvero cingere, abbracciare, recintare con una siepe (SAEPIS, appunto).

Quest'immagine mi ha fatto tornare in mente delle parole del vangelo di Giovanni, che conosco grazie al mio saggio papà:
Io sono la porta per le pecore. Ve l'assicuro. Io sono la porta: chi entra attraverso me sarà salvo. Potrà entrare e uscire e trovare cibo. Il ladro viene soltanto per rubare, uccidere o distruggere. Io invece sono venuto perché abbiano la vita, una vita vera e completa.
A me piace quest'idea di un recinto aperto, nel quale si è liberi di entrare ed uscire, sentendosi al sicuro dentro e fuori, perchè il dio che ci protegge è la porta stessa che scegliamo di attraversare.

Da sempre, del presepe, mi piacciono soprattutto i pastori, come il vecchio Gelindo della tradizione piemontese, che vive sotto le stelle e per questo è tra i primi a vedere la cometa che lo condurrà al miracolo della vita che sboccia.
Questo è quello che io credo avesse in mente il buon Francesco d'Assisi, che il presepe l'ha inventato. La nostra precaria generazione può fare tesoro del suo insegnamento, che tramuto in un augurio per tutti voi che state leggendo: possiate vivere con gioia una vita semplice, ma senza perdere mai la capacità di guardare in alto e accorgervi della stella che vi accompagna.

Buon Natale. :)

martedì 14 dicembre 2010

Esaudire

Sarà l'aroma della tazza di tè di Natale che ho appena bevuto, il profumo dolce dell'arancia e quello piccantino della cannella, sarà che ho un gatto bianco che mi dorme accanto sul letto, e che tutto sommato posso considerarmi una persona fortunata, ma io a certe cose ci credo ancora.
Credo, ad esempio, che un desiderio ben espresso, con la giusta sincerità, possa anche essere esaudito. Ecco quindi la mia letterina di Natale 2010:

Caro babbo Natale,
quest'anno desidero buon cibo e buoni amici, e cose tanto belle da volerle fotografare.
So che chiedo molto, ma mi piacerebbe vivere su un pianeta culturalmente e fisicamente più sano.
Poi vorrei un po' di caldo dentro, d'inverno, e il sole in faccia d'estate.
Vorrei delle parole per giocare e dei chilometri da percorrere. Se ti avanza, portami qualche nota da far vibrare nei miei tasti, mezza dozzina di canzoni e una discreta quantità di risate.
E la capacità di vivere pienamente tutte queste cose, nonostante le difficoltà. Come dici, babbo? Ah, ok, quella è farina del mio sacco.

Esaudire deriva dal latino EX AUDIRE, composto da AUDIRE, cioè ascoltare, e dal rafforzativo EX.
Non significa altro che "ascoltare pienamente", e dunque, attraverso una profonda comprensione, rendere possibile ciò che ci viene chiesto.

domenica 5 dicembre 2010

Rumenta

L'Italia è invasa di rumenta... immondizia, rifiuti, spazzatura, monnezza. Comunque la chiamiate la sudicia sostanza, ahimè, non cambia. Sarà la mafia che ci guadagna a smaltirla, sarà il nostro scarso senso civico nel riciclarla, saranno le multinazionali che ci costringono a produrne sempre di più, racchiudendo qualunque prodotto in infiniti strati di imballaggio.
Sul problema già molto è stato scritto, e io sono qui, invece, per raccontarvi una storiella esemplare:


Ezio e Patrizia passano le vacanze in un paesino sulle Alpi. Lì hanno una piccola casa con un grande balcone. Stanno passeggiando, e Ezio ogni tanto si ferma, si china a terra, e poi si ritira su.
«Si può sapere che stai facendo?» chiede Patrizia.
«Raccolgo questa roba, è incredibile quante schifezze la gente butta per terra».
«Sì, vabbè, ma mica potrai raccoglierle tutte tu».
«Certo che posso, qui è come se ci fossi nato, è il mio paese, e io lo tengo pulito. Fai conto che mi paghino per farlo, ecco... è come se prendessi cinquanta centesimi a rifiuto. Toh, di oggi mi sono già guadagnato tre euro e mezzo».
Patrizia sorride accondiscendente e continuano a camminare.
Dopo alcuni giorni, Ezio esce di casa con il sacchetto della rumenta da buttare, di mattina presto, prima di andare al bar a leggere il giornale.
Si avvicina al cassonetto, che è vuoto, e a un tratto li vede.
Sul fondo, cinquanta euro. Per lui.

Conosco personalmente Ezio e Patrizia e so con sicurezza le le cose sono andate proprio così.
La nostra parabola è ambientata in Piemonte, e quassù immondizia si dice rumenta, oppure, nell'astigiano, armenta. Mi sono interrogata a lungo sull'etimologia di questa parola e alla fine ho concluso che deriva dal verbo piemontese arman-e, cioè rimanere, dal latino REMANERE (la A iniziale è tipica dei verbi che iniziano per RE- nei dialetti del nord italia, e serve ad agevolare la pronuncia). 
Le due parole in questione traggono origine da dei neutri plurali, e significavano "le cose che restano, ciò che rimane", ovvero i rimasugli, gli avanzi.
È facile, oggi più che mai, dimenticarsi dei rifiuti, ma in compenso è molto, molto difficile disfarsene.
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